La mostra dedicata a Andy Warhol, l’Icona Pop

Al Centro Culturale Altinate San Gaetano di Padova si tiene la mostra Andy Warhol. Icona Pop, dedicata alla vita e alle opere dell’artista, fino al 29 gennaio 2023.

Artika, in collaborazione con l’Assessorato alla cultura del Comune di Padova e la Fondazione Mazzoleni, ha organizzato l’esposizione di 150 opere tra disegni, incisioni, serigrafie, sculture, cartoline e celebri oggetti.

Per l’occasione il Centro Altinate ha inoltre assunto le tinte della Pop Art per celebrare l’icona pop per eccellenza, grazie al percorso pensato da Daniel Buso e curato da Simona Occioni.

Lo scopo auspicato dagli organizzatori – e condiviso anche da SupportART – è di avvicinare e incuriosire le generazioni più giovani al mondo dell’Arte.

Vi presentiamo quindi la nostra modesta review della mostra dedicata alla vita dell’artista che per eccellenza rappresenta un’Icona assoluta del Novecento.

Icona Pop o spietato critico della modernità?

La curiosità era il motore che spingeva Andy Warhol in un’indagine continua e poliedrica della società contemporanea.

Di lui è rimasto il mito di una figura a cui vengono associati aggettivi come ironico provocatorio, disincantato, eccentrico…

Andy Warhol non ha mai tuttavia voluto definirsi in un’unica categoria, piuttosto preferisce sperimentare come un genio rinascimentale nella New York degli anni Sessanta.

Nasce infatti come pubblicitario, per poi guardarsi intorno, identificare l’immaginario collettivo e trasformare la cultura di massa in arte, la banalità del quotidiano in prodotto d’immagine.

Non si possono scorporare le sue opere dalla sua vita straordinaria, dagli incontri con altre celebrità e figure iconiche della New York tra gli anni Settanta e Ottanta. 

Persino i volti più celebri non sono stati risparmiati dalla critica di Andy Warhol, usati come oggetti in serie della cultura del consumo: Marilyn Monroe, Elvis Presley, Elizabeth Taylor, Mick Jagger, Michael Jackson, la regina Elisabetta II e Mao Zedong.

Una tela variopinta per la Pop Art

All’epoca della sua prima esposizione a Los Angeles, Andy Warhol non fu risparmiato né dalla critica né dall’opinione pubblica: una vignetta satirica del Los Angeles Times decretò come fallimento i dipinti delle Campbell’s Soups.

Le tele delle iconiche lattine sono ora esposte in esclusiva a Padova, 60 anni dopo quella prima “disastrosa” esposizione dell’artista.

Non avreste anche voi osato tutto pur di farvi un nome negli anni da Andy stesso definiti come “l’epoca della genialità”? O almeno, ricevere un invito alle serate leggendarie dello Studio 54, dove ogni genere di prodezza è stata compiuta.

La mostra Andy Warhol. Icona Pop è suddivisa in 6 sezioni, ognuna identificata da uno sgargiante colore alle pareti e da un tema correlato delle opere artistiche.

Il filo conduttore è un viaggio incalzante nell’eccentrico mondo di Warhol al fine di conoscere la sua vita inimitabile e la sua parabola artistica in tutte le sfaccettature.

Le opere esposte in esclusiva: da Cows a Marilyn Monroe

Partendo proprio dalla sua immagine, immortalata in autoritratti e fotografie realizzate da amici come Nathan Louis “Nat” Finkelstein, siamo introdottə senza indugio alla celebrazione sfrenata del re della Pop Art.

Potrete ammirare quindi il portfolio esclusivo “Ladies and Gentlemen” – commissionato dal celebre gallerista italiano Luciano Anselmino nel 1974 – che ritrae le più celebri drag queen e le persone transgender del club newyorkese The Gilded Grape.

Andy Warhol trasformò gli anonimi individui – marginalizzati e discriminati dalla società dell’epoca – in veri e propri attori, spesso giocando su pose teatrali ed appariscenti, al fine di portare in superficie tutto il loro glamour femminile.

Seguono nell’esposizione le serie Cows, Flowers e le immancabili Campbell’s Soups: soggetti che a primo impatto appaiono scelte eccentriche dell’artista, più comunemente associato alla mondanità.

Essi, tuttavia, offrivano la sfida perfetta per l’artista nel suo intento di trasformare il banale in simbolo attraverso la ripetizione, racchiudendo le contraddizioni della società moderna.

Rispettando questo fil rouge, non poteva mancare la sezione intitolata “Soldi e potere” che comprende le serigrafie ed i dipinti ritraenti Michael Jackson, Muhammad Ali, Mao Zedong e Marilyn Monroe.

Alla conclusione della mostra vi aspetta invece una sala interamente dedicata alle testimonianze visive delle feste sfrenate allo Studio 54, in cui vigeva “una dittatura all’ingresso e una democrazia sulla pista da ballo”.

Simbolo dell’epoca disco – in soli tre anni ha dettato la moda e lo stile di vita di tutto il mondo – il nightclub era una tappa immancabile per Andy Warhol ed il suo entourage.

Così racconta il fotografo Bill Bernstein: “C’era libertà di espressione e di inclusione. Potevi essere chiunque volessi ed eri sempre il benvenuto. Tutti erano invitati a fare festa e credo che questo sia effettivamente il desiderio primario delle persone: essere accettate. La discoteca soddisfaceva abbastanza bene questo bisogno”.

Anche questi scatti di edonismo racchiudono uno dei messaggi più profondi delle opere di Andy Warhol: la fragilità della vita e la paura della morte, che l’artista tenta di esorcizzare dando immortalità anche all’oggetto più banale.

Conclusione

Si conclude così la mostra sull’uomo che divenne mito ed icona della modernità, con la citazione che ancora oggi suona familiare: “The idea is not to live forever; it is to create something that will”.

Andy Warhol era alla ricerca di un senso, di significati e di emozioni in un momento storico in cui tutto sembrava cambiare costantemente con una frenesia rivoluzionaria.

A questa mostra abbiamo cercato anche noi, attraverso le sue opere e tanta ironia, di trovare un senso al nostro tempo ed alla nostra società. 

Se avete occasione prossimamente, dedicate anche voi il tempo alla visita di Andy Warhol. Icona Pop e chissà, potreste trovare l’ispirazione per conquistare i vostri 15 minutes of fame.

L’importanza dello sguardo femminile nell’Arte

Il British Museum a Londra ha inaugurato la nuova mostra “Feminine power: the divine to the demonic” dedicata accuratamente al potere e all’arte femminile.

Se avete occasione vi consigliamo una visita – avrete tempo fino al 25 settembre – per conoscere le artiste più famose nel panorama internazionale e, in tal modo, osservare il corpo femminile attraverso uno sguardo più inclusivo.

Di seguito vi proponiamo una riflessione doverosa sulla differenza di prospettive e sguardi che hanno determinato delle disuguaglianze di genere nel mondo dell’Arte. Questo non per celebrare meccanicamente l’arte femminile in quanto tale, ma per comprendere le invisibili sovrastrutture che influenzano la popolarità, la visibilità e la rappresentazione anche nel mondo dell’Arte ancora oggi.

La tradizione del male-gaze nell’Arte

Nel 1989 sui bus newyorkesi appaiono per la prima volta i poster provocatori delle Guerrilla Girls, rifiutati dal Public Art Fund per mancanza di chiarezza.

Questi manifesti riportavano per la prima volta i risultati di un’indagine decisiva per il mondo dell’Arte: al Metropolitan Museum of Art solo il 5% degli/delle artistə espostə nella sezione Modern Art era donna, ma più dell’85% dei nudi erano femminili. Nel 2012 i risultati della ricerca riproposta erano praticamente i medesimi.

Da questa rilevazione circoscritta al patrimonio del Met casa di più di 2 milioni di opere d’arte – nasce, quindi, una consapevolezza maggiore sulle discrepanze dovute al genere tra artistə e sul cosiddetto “male-gaze” nell’Arte.

Il concetto di male-gaze è stato introdotto nel 1975 da Laura Mulvey, regista e critica cinematografica: secondo la sua definizione, si tratta de “il mostrare o guardare eventi o le donne dal punto di vista di un uomo, attraverso l’utilizzo di mezzi di comunicazione quali cinema, televisione, pubblicità, video musicali, arte e letteratura”.

Adottando questa prospettiva, potreste cogliere alle prossime mostre o esibizioni nei musei storici come la forma femminile venga spesso raffigurata come una fantasia voyeuristica impossibile da raggiungere e realizzare nella vita reale.

Nella pratica, il corpo della donna viene costantemente oggettificato e sessualizzato per il piacere maschile: scorrendo un manuale di storia dell’arte, nella maggior parte dei casi lo sguardo maschile nega ai suoi soggetti la loro individualità e la loro umanità.

Nel libro rivoluzionario Ways of seeing, John Berger contribuì alla comprensione dell’arte e dell’immagine visiva, criticando l’estetica culturale tradizionale occidentale ed interrogandosi sulle ideologie nascoste nelle immagini visive.

Sul male-gaze scrisse: “La donna deve guardarsi di continuo. Ella è quasi costantemente accompagnata dall’immagine che ha di se stessa. […] Gli uomini agiscono e le donne appaiono. Gli uomini guardano le donne. Le donne osservano se stesse essere guardate. Ciò determina non soltanto il grosso dei rapporti tra uomini e donne, ma anche il rapporto delle donne con se stesse”.

L’opposto del male-gaze è infatti il female-gaze: uno sguardo empowering ed empatico che mette in rilievo la dinamicità del soggetto e la sua complessità interiore, senza ridurlo ad un corpo seducente.

Si dice che l’Arte imita la vita e viceversa: quanto, quindi, il nostro immaginario collettivo è stato influenzato dall’adozione secolare di una prospettiva prettamente maschile? Quanto ha influito questo sguardo nella nostra formazione artistica ma anche nelle nostre opinioni sulla sessualità, sugli stereotipi di genere e sull’inclusione?

La risposta dirompente: il female-gaze

Allo scopo di colmare questa mancanza di rappresentazione “veritiera” nell’Arte, molte artiste donne nel corso dell’ultimo secolo – in sinergia con i cambiamenti socio-culturali ottenuti dai movimenti femministi – si sono fatte carico di mostrare al mondo la riappropriazione dell’immagine del corpo e dell’identità femminile.

Nel mondo dell’arte, lo “sguardo femminile” è usato in riferimento alla nuova ondata di arte femminista contemporanea, in particolare la fotografia.

Pioniera in questo campo è stata sicuramente Cindy Sherman (1954) con “Untitled Film Stills”, una serie fotografica ispirata ai B movie degli anni Cinquanta in cui l’artista esplora temi come l’autoritratto, l’uso del travestimento e la parodia degli stereotipi imposti dalla società alle donne.

Georgia O’Keeffe (1887-1986), “madre del Modernismo americano”, invece si discostò sempre dall’interpretazione femminista delle sue opere raffiguranti fiori – spesso reputati dalla critica come simboli di organi genitali femminili.

Tuttavia, senza pretese rivoluzionarie, Georgia O’Keeffe mostrò al pubblico più di semplici raffigurazioni erotiche: “un racconto visivo vivido, poetico ed evocativo di una donna sulla propria esperienza del proprio corpo e dei propri desideri”.

Per contro, artiste post-moderniste come Barbara Kruger (1945), attraverso le tecniche di comunicazione di massa ed advertising, hanno affrontato nelle proprie opere le costruzioni culturali di potere, le questioni d’identità, il consumismo e la sessualità.

La maggior parte dei suoi lavori tratta l’idea della donna nell’arte e come la stessa cultura influisca sulla ricezione dell’immagine femminile nell’arte, a partire dalla sua opera esemplare “Your gaze hits the side of my face”.

Tuttavia, secondo un approccio intersezionale, riteniamo giusto sottolineare che nel campo dell’arte le artiste non-occidentali sono ancora uno spettacolo raro nei musei di belle arti. In particolare le artiste nere vengono raramente ricordate e celebrate al pari di artiste bianche: corriamo quindi il rischio di adottare uno sguardo femminile che esclude però le voci e le prospettive di artiste appartenenti a minoranze.

La prima persona afroamericana a laurearsi alla School of the Museum of Fine Arts, Boston, Lois Mailou Jones (1905-1998) scelse di rappresentare nel suo lavoro la vita quotidiana della comunità afroamericana negli Stati Uniti.

Come artista nera negli Stati Uniti dedicò la sua arte ed il suo attivismo alle battaglie contro il razzismo sistemico, traendo forza e protezione dal suo patrimonio culturale di fronte al pregiudizio. Il suo lavoro fu essenziale per l’inclusione dell’esperienza delle minoranze nell’Arte e per una maggiore rappresentazione a partire dagli anni Settanta.

Altresì importante in questo processo di inclusione fu Carrie Mae Weems (1954), artista afroamericana che lavora in testo, tessuto, audio, immagini digitali e video di installazione, ma è meglio conosciuta per la sua fotografia.

Il pubblico la conobbe grazie al suo progetto fotografico dei primi anni ’90 “The Kitchen Table Series”. Le sue fotografie, film e video sono incentrati sulle problematiche che gli afroamericani devono affrontare oggi, come razzismo, sessismo, politica e identità personale.

Conclusioni

Attraverso l’Arte siamo in grado di veicolare emozioni, storie, messaggi in grado di influenzare la percezione delle persone e di creare anche solo un piccolo cambiamento.

Questo scambio ed i possibili effetti dimostrano quanto sia importante riconoscere gli schemi inflessibili da cui l’Arte e gli/le artistə sono stati vincolati per secoli, escludendo lo sguardo e quindi le esperienze delle minoranze.
Per questo motivo abbiamo sempre maggiore consapevolezza sull’importanza dello sguardo attraverso cui interpretare, osservare o persino creare un’opera.

Noi di SupportART ci impegniamo affinché ciascunə possa esprimere la propria identità, creatività e storia e non rimanga esclusə dal mondo dell’Arte. Ognuno di noi può essere un artista e contribuire ad arricchire il patrimonio culturale della propria comunità.

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