Al Centro Culturale Altinate San Gaetano di Padova si tiene la mostra Andy Warhol. Icona Pop, dedicata alla vita e alle opere dell’artista, fino al 29 gennaio 2023.
Artika, in collaborazione con l’Assessorato alla cultura del Comune di Padova e la Fondazione Mazzoleni, ha organizzato l’esposizione di 150 opere tra disegni, incisioni, serigrafie, sculture, cartoline e celebri oggetti.
Per l’occasione il Centro Altinate ha inoltre assunto le tinte della Pop Art per celebrare l’icona pop per eccellenza, grazie al percorso pensato da Daniel Buso e curato da Simona Occioni.
Lo scopo auspicato dagli organizzatori – e condiviso anche da SupportART – è di avvicinare e incuriosire le generazioni più giovani al mondo dell’Arte.
Vi presentiamo quindi la nostra modesta review della mostra dedicata alla vita dell’artista che per eccellenza rappresenta un’Icona assoluta del Novecento.
Icona Pop o spietato critico della modernità?
La curiosità era il motore che spingeva Andy Warhol in un’indagine continua e poliedrica della società contemporanea.
Di lui è rimasto il mito di una figura a cui vengono associati aggettivi come ironico provocatorio, disincantato, eccentrico…
Andy Warhol non ha mai tuttavia voluto definirsi in un’unica categoria, piuttosto preferisce sperimentare come un genio rinascimentale nella New York degli anni Sessanta.
Nasce infatti come pubblicitario, per poi guardarsi intorno, identificare l’immaginario collettivo e trasformare la cultura di massa in arte, la banalità del quotidiano in prodotto d’immagine.
Non si possono scorporare le sue opere dalla sua vita straordinaria, dagli incontri con altre celebrità e figure iconiche della New York tra gli anni Settanta e Ottanta.
Persino i volti più celebri non sono stati risparmiati dalla critica di Andy Warhol, usati come oggetti in serie della cultura del consumo: Marilyn Monroe, Elvis Presley, Elizabeth Taylor, Mick Jagger, Michael Jackson, la regina Elisabetta II e Mao Zedong.
Una tela variopinta per la Pop Art
All’epoca della sua prima esposizione a Los Angeles, Andy Warhol non fu risparmiato né dalla critica né dall’opinione pubblica: una vignetta satirica del Los Angeles Times decretò come fallimento i dipinti delle Campbell’s Soups.
Le tele delle iconiche lattine sono ora esposte in esclusiva a Padova, 60 anni dopo quella prima “disastrosa” esposizione dell’artista.
Non avreste anche voi osato tutto pur di farvi un nome negli anni da Andy stesso definiti come “l’epoca della genialità”? O almeno, ricevere un invito alle serate leggendarie dello Studio 54, dove ogni genere di prodezza è stata compiuta.
La mostra Andy Warhol. Icona Pop è suddivisa in 6 sezioni, ognuna identificata da uno sgargiante colore alle pareti e da un tema correlato delle opere artistiche.
Il filo conduttore è un viaggio incalzante nell’eccentrico mondo di Warhol al fine di conoscere la sua vita inimitabile e la sua parabola artistica in tutte le sfaccettature.
Le opere esposte in esclusiva: da Cows a Marilyn Monroe
Partendo proprio dalla sua immagine, immortalata in autoritratti e fotografierealizzate da amici come Nathan Louis “Nat” Finkelstein, siamo introdottə senza indugio alla celebrazione sfrenata del re della Pop Art.
Potrete ammirare quindi il portfolio esclusivo “Ladies and Gentlemen” – commissionato dal celebre gallerista italiano Luciano Anselmino nel 1974 – che ritrae le più celebri drag queen e le persone transgender del club newyorkese The Gilded Grape.
Andy Warhol trasformò gli anonimi individui – marginalizzati e discriminati dalla società dell’epoca – in veri e propri attori, spesso giocando su pose teatrali ed appariscenti, al fine di portare in superficie tutto il loro glamour femminile.
Seguono nell’esposizione le serie Cows, Flowers e le immancabili Campbell’s Soups: soggetti che a primo impatto appaiono scelte eccentriche dell’artista, più comunemente associato alla mondanità.
Essi, tuttavia, offrivano la sfida perfetta per l’artista nel suo intento di trasformare il banale in simbolo attraverso la ripetizione, racchiudendo le contraddizioni della società moderna.
Rispettando questo fil rouge, non poteva mancare la sezione intitolata “Soldi e potere” che comprende le serigrafie ed i dipinti ritraenti Michael Jackson, Muhammad Ali, Mao Zedong e Marilyn Monroe.
Alla conclusione della mostra vi aspetta invece una sala interamente dedicata alle testimonianze visive delle feste sfrenate allo Studio 54, in cui vigeva “una dittatura all’ingresso e una democrazia sulla pista da ballo”.
Simbolo dell’epoca disco – in soli tre anni ha dettato la moda e lo stile di vita di tutto il mondo – il nightclub era una tappa immancabile perAndy Warhol ed il suo entourage.
Così racconta il fotografo Bill Bernstein: “C’era libertà di espressione e di inclusione. Potevi essere chiunque volessi ed eri sempre il benvenuto. Tutti erano invitati a fare festa e credo che questo sia effettivamente il desiderio primario delle persone: essere accettate. La discoteca soddisfaceva abbastanza bene questo bisogno”.
Anche questi scatti di edonismo racchiudono uno dei messaggi più profondi delle opere di Andy Warhol: la fragilità della vita e la paura della morte, che l’artista tenta di esorcizzare dando immortalità anche all’oggetto più banale.
Conclusione
Si conclude così la mostra sull’uomo che divenne mito ed iconadellamodernità, con la citazione che ancora oggi suona familiare: “The idea is not to live forever; it is to create something that will”.
Andy Warhol era alla ricerca di un senso, di significati e di emozioni in un momento storico in cui tutto sembrava cambiare costantemente con una frenesia rivoluzionaria.
A questa mostra abbiamo cercato anche noi, attraverso le sue opere e tanta ironia, di trovare un senso al nostro tempo ed alla nostra società.
Se avete occasione prossimamente, dedicate anche voi il tempo alla visita di Andy Warhol. Icona Pop e chissà, potreste trovarel’ispirazione per conquistare i vostri 15 minutes of fame.
Tantə artistə, celebrità e persone illustri prima di noi hanno camminato, ammiratə, lungo le strade di Parigi, città dell’Arte.
Fin dal primo passo si percepisce la storia che ha definito, distrutto e ricostruito la città per secoli, creando un immenso monumento a cielo aperto.
Ogni istante lo sguardo cattura la bellezza decadente di palazzi, vicoli e artistə che la popolano.
Perché sì, ancora potreste vedere verə artistə a Parigi, intentə nelle loro opere mentre la vita urbana prosegue.
Cresciamo con il mito di questa città, rappresentata come capitale di artistə per eccellenza, culla dei movimenti artistici che hanno segnato la storia dell’arte.
Venite con noi in un itinerario artistico esclusivo di Parigi, con gli occhi di amantə dell’Arte.
MUSEI
*disclaimer: per le persone Under 26 la maggior parte dei Musei sono gratuiti, ma dovrete comunque prendere i biglietti all’ingresso o prenotare sui siti ufficiali.
Museo del Louvre
Non ha certo bisogno di presentazioni: è la galleria d’arte più grande al mondo e custodisce 615.797 in totale a partire dal 2019, di cui 35.000 opere sono esposte.
Antico palazzo per i reali di Francia, ufficialmente il Museo del Louvre è stato aperto al pubblico il 10 agosto 1793.
Attualmente, ogni anno si stima ospiti 10 milioni di visitatori.
E vi assicuriamo che la leggendaria fila all’ingresso della Piramide farebbe desistere in moltə da una visita, se non fosse per alcuni “scorciatoie”.
Il nostro consiglio è prenotare i biglietti d’ingresso attraverso il sito web (https://www.louvre.fr/en/visit/hours-admission), scegliendo già il giorno e l’orario, e accedere al Musée dall’entrata Carrousel du Louvre.
Una volta entratə, studiate bene il vostro percorso attraverso le vaste sale e affidatevi alla mappa per orientarvi in questo labirinto di opere.
In media una visita al Museo del Louvre dura 3-4 ore, anche se ci vorrebbero circa tre giorni interi per scoprire ed ammirare ogni singola opera o reperto storico esposto.
Fate qualche pausa per non provare un “sovraccarico di informazioni” e soprattutto delineate prima della visita le tappe immancabili: eviterete così il senso di disorientamento.
Ecco alcune opere che secondo noi non dovete assolutamente perdervi: “Amore e Psiche” di Canova, “La Gioconda” ed altri importanti quadri di Leonardo Da Vinci, Nike di Samotracia, Venere di Milo e “Libertà che guida il popolo” di Eugène Delacroix.
Museo d’Orsay
Questo museo va a colmare la lacuna esistente tra la collezione del Louvre e quella esposta al Museo Nazionale d’Arte Moderna, che si trova nel Centre Pompidou.
È infatti il “tempio” dedicato all’arte delle correnti dell’ impressionismo e del post-impressionismo.
Rimarrete tuttavia incantatə anche dall’architettura interna di questo Museo.
È stato costruito in una ex-stazione ferroviariadi fine Ottocento – la Gare d’Orsay – e solo nel 1978 fu decisa la trasformazione definitiva in Museo, (una nota d’orgoglio italiano: la progettazione dei percorsi espositivi e la disposizione degli interni sono opera della celebre architetta Gae Aulenti).
Al suo interno il Museo d’Orsay custodisce attualmente 6.000 opere d’arte, di cui 3.000 esposte in modo permanente.
Alcuni artisti impressionisti esposti che potrete ammirare nelle varie sale: Claude Monet, Paul Cézanne, Édouard Manet, Pierre-Auguste Renoir, Edgar Degas, Alfred Sisley, Camille Pissarro, Berthe Morisot, Gustave Caillebotte, e tantə altrə meno conosciutə.
Vi segnaliamo le immancabili opere di Vincent Van Gogh, tra cui “Autoritratto”, “La chiesa di Auvers-sur-Uisp”, “Notte stellata sul Rodano” e “La stanza di Van Gogh ad Arles”.
Attenzione: vedere questi quadri di persona potrebbe suscitare euforia e commozione in qualsiasi amante dell’arte.
Non perdetevi anche “Due donne tahitiane” di Paul Gauguin, la galleria interamente dedicata a Henri de Toulouse-Lautrec, un’altra a Gustave Courbet e anche le sculture di Auguste Rodin.
Per godervi appieno la vostra visita, e dedicare tempo alla sezione dedicata alla storia del Cinema, è consigliabile trascorrere da 2 a 4 ore esplorando.
Museo dell’orangerie
L’autentica “Cappella Sistina dell’impressionismo”, come la definì André Masson nel 1952: è un museo di pittura impressionista e post-impressionista.
È situato nell’angolo ovest dei Giardini delle Tuileries accanto a Place de la Concorde a Parigi, nell’antica orangerie del Palazzo delle Tuileries.
Alcune curiosità storiche: all’inizio del progetto, a Claude Monet fu chiesto di donare dei pannelli decorativi come monumento celebrativo per la fine della prima guerra mondiale.
Il 12 aprile 1922 Claude Monet firmò il contratto di donazione al governo francese delle Nymphéas, serie di pannelli decorativi dipinti su tela con destinazione nelle ridisegnate stanze ovali all’Orangerie.
Il Museo dell’Orangerie aprì ufficialmente al pubblico il 17 maggio 1927.
Le immense tele delle Nymphéas – valorizzate dalle candide sale del palazzo – sono tuttora l’attrazione principale, infatti il tempo di permanenza al Museo è stimato circa di 1 ora.
Tuttavia il Musée dell’Orangerie espone anche opere di Paul Cézanne, Henri Matisse, Amedeo Modigliani, Claude Monet, Pablo Picasso, Pierre-Auguste Renoir, Henri Rousseau, Alfred Sisley, Maurice Utrillo e tanti altri.
CENTRI D’ARTE
Centro Pompidou
Questo è un centro d’Arte che non dovete assolutamente perdervi, anche solo per l’emozione di salire le numerose rampe di scale mobili che vi regaleranno le migliori viste del landscape parigino.
Nasce come “Museo del XX secolo” e infatti la progettazione dell’edificio venne affidata agli architetti Piano, Franchini e Rogers, anche se al progetto lavorarono solo Rogers e Piano.
Essi crearono quindi uno degli edifici più rappresentativi della modernità.
Il Centro nacque dalla volontà di Georges Pompidou, presidente della Repubblica francese (1969-1974), di creare nel cuore di Parigi un’istituzione culturale all’insegna della multidisciplinarietà, interamente dedicata all’arte moderna.
Alla base di questo progetto vi era la convinzione che l’arte contemporanea potesse arrivare a un più ampio pubblico, coinvolgendo la comunità parigina e riportando un’arte “democratica” nel centro della città.
Nello stesso edificio, tra piani e dislivelli, troverete infatti una vasta biblioteca pubblica – la Bibliothèque Publique d’Information (BPI) – il Musée National d’Art Moderne, un museo del design, esposizioni temporanee, attività musicali promosse dall’IRCAM ed altre attività cinematografiche e audiovisive.
Il centro Georges-Pompidou è stato inaugurato il 31 gennaio 1977 e custodisce una collezione di circa 100 mila opere, in cui accanto alle arti visive trovano posto il design, l’architettura, la fotografia e le opere multimediali.
Tra gli artisti esposti non perdetevi assolutamente il grande Wassily Kandinsky: avrete tempo fino al tramonto per concedervi una visita indimenticabile.
Atelier des lumières
Rimaniamo nell’ambito della modernità per consigliarvi l’Atelier des Lumières: un centro d’arte digitale situato in 38 rue Saint-Maur nell’11° arrondissement di Parigi.
Creato da Culturespaces – azienda privata specializzata nell’organizzazione di mostre temporanee e digitali immersive – apre al pubblico il 13 aprile 2018.
In origine questo centro d’arte immersiva era una fonderia d’acciaio detta “fonderie du Chemin-Vert”, aperta nel 1835 dai fratelli Plihon e poi caduta in disuso fino alla recente trasformazione.
All’interno avrete la possibilità di immergervi letteralmente nelle opere di artistə come Vincent Van Gogh, Paul Cézanne, Wassily Kandinsky e Yves Klein.
Le mostre digitali immersive sono progettate a partire da migliaia di immagini di opere d’arte digitalizzate, trasmesse in altissima risoluzione tramite fibra ottica e messe in movimento al ritmo della musica.
Vi è anche una sala secondaria – il cosiddetto “Studio” – convertita in caffetteria , che funge da spazio insonorizzato per l’esposizione di opere multimediali di giovani creatori e registi.
A proposito dell’Atelier des Lumières, la rivista ELLE lo definisce come “esperienza la cui ambizione non è quella di sostituire i musei, ma piuttosto di far venire voglia di tornarci e vederli sotto un occhio rinfrescato”.
POSTI INDIMENTICABILI
59 Rivoli
Costruito nel periodo haussmanniano di rinnovamento urbano per ordine di Napoleone Bonaparte, questo antico palazzo nel cuore di Parigi era una filiale della banca Crédit Lyonnais.
Ora invece è diventato uno dei più grandi spazi artistici autogestiti di Parigi e il modello di riferimento di “squart”, ovvero l’occupazione di spazi abbandonati da parte di artistə.
Abbandonato per 15 anni dalla banca e dallo Stato francese, l’1 novembre 1999 il gruppo di dodici artistə guidati dai “KGB” (dai nomi Kalex, Gaspard, Bruno) occupa lo spazio di sei piani e lo ripulisce.
Inizialmente osteggiati dall’amministratrice della città, i residenti di 59 Rivoli creano uno spazio sicuro e condiviso in cui artistə da tutto il mondo vivono e creano Arte.
La novità è la possibilità per il pubblico di accedere liberamente agli ateliers, conoscere gli/le artistə e condividere direttamente con loro il proprio amore per l’arte.
Già nel 2001 più di 40.000 persone all’anno visitano 59 Rivoli – era praticamente il terzo centro o museo di arte contemporanea più visitato in città!
Nel 2019 oltre 70.000 turistə hanno visitato 59 Rivoli e, dopo due anni di pandemia, tornano ora a girovagare per le sale della factory d’Arte per eccellenza.
In tutto l’edificio sono attualmente presenti e visitabili 30 atelier: non perdetevi l’occasione unica di entrare in contatto con questa realtà!
Se siete curiosə della storia e degli/delle artistə che popolano attualmente 59 Rivoli date un’occhiata anche all’articolo sulla nostra visita in questa “ambasciata della creatività”!
Vicoli di Montmartre
Situato sulla collina nella zona nord di Parigi, questo quartiere conserva il fascino che l’ha reso famoso: nelle strade e nelle piazzette troverete decine di ritrattistə intentə nelle opere commissionate da turisti alla ricerca di un souvenir personalizzato.
Centro della vita bohémienne durante la Belle Époque, è diventato il simbolo dello stile di vita non convenzionale di artisti, scrittori, musicisti e attori marginalizzati e impoveriti.
Qui potrete inoltre ammirare i cabaret iconici del Moulin Rouge e de Le Chat noir, ancora luoghi di divertimento sfrenato ed eccesso decadente.
Non a caso Pablo Picasso, Amedeo Modigliani e altri artisti vivevano e lavoravano in un edificio poco distante – Le Bateau-Lavoir – durante gli anni 1904-1909, dove Picasso dipinse uno dei suoi capolavori più importanti: “Les Demoiselles d’Avignon”.
Il quartiere di Montmartre – a causa della sua economicità – fu infatti il luogo prediletto da vari pittori, tra cui Pissarro, Toulouse-Lautrec, Steinlen, Van Gogh, Modigliani, Picasso e Maurice Utrillo.
Tra gli ultimi luoghi di ritrovo bohémien del quartiere c’era R26, un salone artistico frequentato da Josephine Baker, Le Corbusier e Django Reinhardt.
Un’altra iconica meta che vi suggeriamo a Montmartre è “The Wall of Love”: un muro love-themed di 40 metri quadrati nella piazza del giardino Jehan Rictus.
Il muro è stato creato nel 2000 da Fédéric Baron e Claire Kito ed è composto da 612 piastrelle di lava smaltata, su cui la frase “Ti amo” è presente 311 volte in 250 lingue.
Torre Eiffel
Non potevamo concludere il nostro itinerario senza citare il simbolo per eccellenza di Parigi: la Tour Eiffel.
La Torre venne ufficialmente aperta al pubblico alle ore 11:50 del 15 maggio 1889, nove giorni dopo l’inizio dell’Esposizione Universale a Parigi.
Questo monumento di dimensioni colossali è opera degli architetti Maurice Koechlin e Émile Nouguier, sotto la dipendenza e la guida di Monsieur Gustave Eiffel.
Questo è un estratto della lettera aperta pubblicata sul giornale Les Temps il 14 febbraio 1887, durante la costruzione della torre.
Oggi è una tappa imprescindibile durante il proprio soggiorno a Parigi: è il monumento più visitato al mondo, con più di 7 milioni di visitatori ogni anno!
È consigliato acquistare il biglietto in anticipo online per evitare file interminabili e tempi di attesa eccessivi.
In alternativa potrete ammirare questo monumento unico mentre camminate lungo la Senna durante la sera e cogliere il momento in cui la Torre Eiffel “si accende” in spettacoli di luci che vi lasceranno senza fiato.
Conclusione
Vi abbiamo portato con noi lungo un itinerario artistico a Parigi: il nostro non è il percorso di default, ognuno può creare il suo a partire dalle proprie passioni e curiosità.
In una città i luoghi d’arte sono un patrimonio immenso perché custodiscono la cultura, la storia, l’essenza dei cambiamenti avvenuti nel corso dei secoli.
Non fanno riferimento ad un passato lontano, distaccato da noi: sono il punto di riferimento per il presente, ricordandoci ciò che è stato, e la chiave per costruire il futuro.
Se avrete la possibilità durante la permanenza a Parigi, dedicate qualche ora all’esplorazione degli spazi artistici e lasciatevi incantare dalla bellezza che potrete trovare in ogni angolo, ogni scorcio, ogni artista.
Diffidate da chi definisce “59 Rivoli” semplicemente come una galleria d’arte: è molto più di quanto potessimo immaginare, o sognare in quanto amantə dell”Arte.
Entrando quindi dalla porta variopinta nel centro di Parigi, ci siamo immersənella“factory” artistica ed abbiamo incontrato di persona gli/le artistə che popolano tutte le stanze di 59 Rivoli.
Costruito nel periodo haussmanniano di rinnovamento urbano per ordine di Napoleone Bonaparte- il palazzo non cela al mondo la sua essenza, anzi sprigiona tutta la creatività a partire dalla facciata ricoperta da colossali installazioni artistiche.
Una storia di occupazione e lotta artistica
Un breve excursus storico prima di condividere con voi la nostra esperienza.
In origine – e stentiamo a crederci vedendo la sua versione attuale – questo edificio al numero 59 di rue de Rivoli era una filiale della banca Crédit Lyonnais.
Abbandonato per 15 anni dalla banca e dallo Stato francese, l’1 novembre 1999 il gruppo di dodici artistə guidati dai “KGB” (dai nomi Kalex, Gaspard, Bruno) occupa lo spazio di sei piani.
Ribattezzato “Chez Robert, Electron Libre”, il gruppo dava sfogo ad ogni ispirazione artistica organizzando mostre, performance e concerti e tenendo aperto al pubblico ogni giorno.
Tuttavia, la Città di Parigi annuncia lo sfratto di 59 Rivoli, previsto per il 4 febbraio 2000.
Solo la dedizione dell’avvocata Florence Diffre fa guadagnare agli/alle artistə sei mesi prima dello sgombero.
Il fatto suscita l’interesse dei media, i quali coniano il nuovo termine “squart” (dall’inglese “squat” e “Art”): a Parigi vi erano stati casi simili di occupazioni di edifici storici, come il Bateau-Lavoir e l’Hôpital Éphémère.
La salvezza per 59 Rivoli giunge sotto forma dell’allora candidato sindaco Bertrand Delanoë, il quale non nascose mai l’entusiasmo per questo spazio artistico unico.
Egli ne aveva capito il potenziale: già nel 2001 più di 40.000 persone all’anno visitavano 59 Rivoli – era praticamente il terzo centro o museo di arte contemporanea più visitato in città!
Vinte le elezioni, Delanoë mantenne la promessa fatta al collettivo e legalizzò formalmente lo “squart”.
Gli/le artistə potevano finalmente continuare le loro creazioni ed esposizioni senza il timore dello sfratto.
Tra il 2006 ed il 2009, 59 Rivoli viene completamente rinnovato: gli/le artistə ricavano tra i 6 piani del palazzo 30 atelier – alcuni dei quali affittabili tramite una selezione.
È innegabile che “l’investimento” dell’amministrazione parigina abbia avuto successo: nel 2019 oltre 70.000 turistə hanno visitato 59 Rivolie, dopo due anni di pandemia, tornano ora a girovagare per le sale della factory d’Arte per eccellenza.
Dentro 59 Rivoli: la nostra esperienza
Immaginate di entrare e perdervi felicemente in un labirinto imprevedibile di Arte e di artistə eccentricə: è forse il paragone migliore per descrivere l’esperienza di esplorare 59 Rivoli.
Diciamo che esiste un percorso tracciato: una salita lungo la tromba di scale ricoperta da affreschi onirici, provocatori, ironici nella rappresentazione dei vizi e delle contraddizioni del nostro tempo.
Tuttavia il nostro consiglio è di lasciarvi trasportare dal genio creativo che permea ogni angolo: prendetevi il tempo di scoprire, di osservare l’Arte mentre viene creata.
Soprattutto, abbiate rispetto degli/delle artistə che popolano e vivono questo spazio: chiedete sempre il permesso prima di fare fotografie alle loro opere, piuttosto scambiate con loro un saluto e perché no, pure qualche riflessione artistica.
In tutto l’edificio sono attualmente presenti e visitabili 30 atelier.
Ognuno di essi vi offre un piccolo scorcio di laboratorio, tra mille materiali, colori, ninnoli, oggetti etc… insomma, un tripudio di strumenti ed opere d’Arte!
Vi presentiamo di seguito 30 artistə che abbiamo avuto il piacere di incontrare a 59 Rivoli.
Paul Navas@polsavan l’obiettivo di questo artista è contestare l’egemonia della realtà materiale, con ricerca sul marciume e la lessicologia. Nulla è insignificante o escludibile dall’Arte.
Tristan Dubois@painter_tristan al cuore delle sue opere pulsa una riflessione sull’effimero. Riprendendo motivi “classici” della storia dell’arte, i suoi dipinti colgono attimi passati e ricordi con un approccio onirico ed attento all’aspetto psicologico della memoria e della nostalgia.
Lolita Bourdon@lolitabrd “assetata di immagini” l’artista non distingue tra le fonti di ispirazione: non ci sono più limiti e confini rigidi tra generi, scuole, movimenti, classi, ere. Le sue opere sono un’esplorazione eccentrica ma senza gerarchia tra forme e materie variegate. Esiste davvero un mondo coerente?
Alexis Tay@alexistay.art artista originaria di Singapore, per lei l’arte è una rappresentazione energetica del mostro mondo interiore, da esprimere attraverso la pittura, il disegno, la musica ed il movimento creativo. Conosce l’immenso potere comunicativo e curativo dell’arte.
Negin Rouhbakhsh@negin.rouhbakhsh artista iraniana, nelle sue opere coesistono il ricco patrimonio culturale persiano e l’ultra-modernità di un presente futuristico. Confermiamo l’impressione del pubblico: “i suoi dipinti rimangono impressi nella retina dell’osservatore”.
Luigi La Ferla@laferlaluigi “piccole tessere si sostituiscono a parole e accostandosi le une alle altre inscenano un racconto”. Si rimane incantatə di fronte ai suoi mosaici, in cui i contrasti, gli innesti tra materiali diversi ed i riverberi di luce e colore si fondono alla ricerca di immortalità.
Pilar Olivero@pilar_olivero artista “visuale” dall’Argentina, considera l’arte come un processo di guarigione. Il suo approccio fotografico si basa infatti sulle connessioni emotive e sulla vulnerabilità.
Gladys@gladpow il suo nome d’arte deriva da “glad power”, cioè il potere della gioia: durante il lockdown del 2020, Gladys abbandona il lavoro in ufficio e si dedica alla sua passione, la pittura. Il suo focus sono gli emblemi integrati in ambienti urbani che inducono il pubblico ad una riflessione sulla relazione tra arte ed identità.
Eduardo Fonseca@eduardofonsecaart nato in Brasile nel 1984, l’artista dedica la sua Arte ad una critica personale, sociale e politica alla società contemporanea. Il punto di vista umoristico si fonde con i colori sgargianti e l’uso dell’oro nei suoi dipinti, creando ritratti unici delle icone pop del nostro tempo.
Jeanne Gourlaouen@jeanne_glaouen appassionata di cultura underground, ogni sua opera di ricollega al tema del cambiamento climatico. Il suo scopo è affrontare con ironia, ibridismo e poesia l’inevitabile crisi ecologica.
Sofía Medina@sofimedina3 trae ispirazione dalla natura e dal suo mondo interiore, esplorando il rapporto tra umanità e paesaggi o elementi naturali. Le sue opere, come lei stessa afferma, rappresentano la dualità interscienza-sprititualità.
Marame Kane@mmtk_illustrations artista franco-senegalese, le sue illustrazioni colgono raccontano brevi storie riguardo l’assimilazione culturale, il razzismo e la police brutality in Francia. Il personale è politico e Marame parte da sè per raccontare il mondo che ci circonda con umorismo tagliente.
Eve Tesorio@evetesorio “Chirurgo plastico in via di guarigione nelle mie condizioni. Creatore di sculture, mobili, oggetti nobili o sconcertanti. Installatore di impianti artistici e umani, Sostenitore dell’immaginazione, l’inventiva, il pensiero critico, il vuoto e la noia, la solidarietà, la curiosità e la semplicità, il disturbo, l’ignoranza, accontentarsi del tempo! Interlocutore del know-how” e molto altro ancora!
Francesco Bouhbal@francesco59rivoli “La mia pittura non è concettuale. La materia, il movimento, il processo creativo ed il tangibile deve prevalere. Passerelle per l’emozione, i sensi e l’immaginazione”.
Gaspard Delanoë@gasparddelanoe fondatore del Museo Igor Balotelli nella sua stanza in rue Volta e membro della cella KGB (Kalex/Gaspard/Bruno) che inaugurò 59 Rivoli nel 1999. Si considera ironicamente un artista performer e, dal 2007, partecipa alle elezioni politiche con il suo partito “Pffft” (Gone for a Ride).
Inès de Chefdebien@inesdechefdebien dopo 10 anni come artista indipendente, lavora nel team di merchandising de Le Bon Marché. Da allora disegna a mano qualsiasi cosa dal fashion, ai cartelloni pubblicitari, ai grandi magazzini e ad altri vari progetti.
Isabelle Marty@i.m.arty una “collage artist”, Isabelle predilige le strade come terreno di caccia per recuperare materiali crudi. Nelle sue opere rappresenta una visione del nostro tempo costruita di icone destrutturate tramite un processo creativo senza fine di scoperta, taglio, incolla, strappo, reincolla.
Anita Savary@aninatai artista autodidatta, pratica l’arte del collage e la fotografia dal 1991: sempre alla ricerca di nuovi modi di espressione, crea anche sculture da vecchi oggetti recuperati e magnifici dipinti dalla tendenza astratta.
Alyosha@aliocha.et.cie membro del collettivo “Chez Robert, Electrons Libres” dal 2000 e tuttora residente a 59 Rivoli, è anche il Segretario dell’associazione 59 RIVOLI. Oltre alle opere artistiche, si dedica anche all’antropologia, essendo membro dell’Associazione ARM (Association for Mimetic Research).
Ka@art9ka è un artista di origini tunisine autodidatta. Nelle sue opere ritroviamo tutte le ricerche e gli esperimenti con diverse tecniche tra la stampa stencil e la street art, traendo ispirazione da vari universi come la geometria, la città, la società e anche la musica.
Pascal Foucart@pascal_foucart diventato pittore nel 1982, sceglie di esprimersi con i colori, espandendo le opere di artisti come Jackson Pollock, uno dei suoi pochi “maestri”. La sua altra passione è l’astronomia; quindi lascia cadere i colori della pittura come costellazioni, supernovae e la Via Lattea su tela ma anche su altri supporti come corpi nudi, vestiti, oggetti…
Ai Komoto@aikomoto: nata a Tokyo, riconosce il mondo rurale giapponese come la principale ispirazione per le sue opere in tessuto, profondamente legate alla tradizione agricola dei genitori.
Liana Pérez@lianapez_art Liana Perez è un’artista visiva e illustratrice colombiana: “Il mio lavoro artistico esplora un universo che è stato influenzato dalle mie esperienze spirituali e dalla ricerca delle mie radici ancestrali. Desidero connettermi sempre di più con gli insegnamenti della Natura, i cicli della luna e le piante medicinali”.
Dario Imbò@darioimbo il suo obiettivo nell’arte è “materializzare la coscienza umana in forma duratura”. Le opere di Dario Imbò imprimono così nella propria materia la traccia dei ricordi e delle percezioni, trasformando i luoghi fisici in sedimenti di memorie personali.
David Takahashi@david.takahashi artista, co-direttore di Atelier 485 Tokyo, grafico. Crea collage, dipinti e disegni utilizzando vari materiali, principalmente carta e tessuto. Crea ombre, immagini di dopo, ricordi, tempo e spazio influenzati dall’emozione. Il suo lavoro deriva dal suo desiderio di sputare costantemente i frammenti delle sue immagini e dei suoi ricordi.
Maurizia Bonvini@maurizia_bonvini giornalista, attratta da sempre dal colore e dalle forme definite attraverso i colori, dopo i tempi della scuola si riavvicina alla pittura durante i viaggi in Africa e in Medioriente come reporter di guerra.
Amarea@amarea17 Al momento sta sviluppando il suo progetto “la scatola magica”, in cui “cerco di riunire tutte le tecniche artistiche che mi piacciono, come la pittura, la ceramica, i graffiti, il ricamo che si intreccia grazie alla tridimensionalità della scultura. I temi che rappresento nelle mie opere sono la femminilità, l’attrazione, i tabù, la sensualità, la seduzione e la maternità”.
César Seize@cesarcez16 ritrattista figurativo, dedica la propria passione artistica a rendere l’Arte più accessibile e democratica. Con uno stile “naïf” e contro cultura, i suoi ritratti hanno ricoperto anche la facciata del palazzo di 59 Rivoli.
Lara Brenne@lala_black_sheep artista statunitense, ha trovato ora casa negli atelier artistici di Parigi. “Sono ispirata dalla natura e dal paesaggio urbano e mi piace esplorare la loro relazione nel mio lavoro. Lavoro con mezzi diversi e spesso con materiali riciclati, spesso trovati per strada o nei negozi di recupero come materiale di scarto”.
Kralova Karin@kkralovart artista slovacca, incentrata principalmente sulla materia e sui colori, ora propone una pittura non figurativa che riflette il suo rapporto con la società e la sua resistenza di fronte a un mondo devastante Antropocene. Karin Kráľová non è un’artista militante in senso stretto, ma si impegna ad affermare la sua femminilità, la sua doppia cultura e le sue convinzioni ecologiche.
Magenta LN@magenta.ln “Dipingo fighe e il resto del mondo. Le mie tele, molto colorate, rappresentano corpi nudi, di donne che prendono posto nello spazio pubblico. In diverse scene, in città come nella natura, mostrano a volte la loro sessualità ma soprattutto i loro corpi, assunti attraverso ombre fluorescenti e lineamenti carichi di sensualità e forza, come per riappropriarsene. Con sicurezza e libertà, le donne si evolvono nei miei dipinti raccontando ogni volta una storia, da sole o in gruppo”.
Milan Sanka@_milansanka “Le maschere dei suoi personaggi, ispirate alle sue origini dell’India occidentale, le rendono anonime e quindi universali. La piattezza nera, specchio che riflette il mondo e la società, è illuminata dalle linee bianche che circondano le scene e dai suoi tocchi di colori accesi. L’essere umano, erede di tutte le sue culture ancestrali, evolve nel suo tempo con tutte le sue sfumature e contraddizioni”.
Conclusione: l’importanza di spazi condivisi simili
Accedere a questo posto unico, è un’esperienza che consigliamo a chiunque ami l’arte nella sua forma più caotica, imprevedibile, umana.
Nel 1826, Joseph Nicéphore Niépce sviluppò la prima ripresa fotografica della storia, inaugurando lo strumento artistico della verità per eccellenza: la fotografia. In particolare, in questo articolo scoprirete insieme a noi una categoria di questa Arte, importante per l’impatto “liberatorio” sulla società: il nudo fotografico.
Tuttavia, un paradossocaratterizza da secoli la cultura prevalente in Occidente: siamo bombardati da immagini e fotografie di corpi nudi – il più delle volte sessualizzati ed oggettificati.
Al contempo però mostrare il proprio corpo o solo alcune parti nude è ancora un tabù: pensiamo, ad esempio, al divieto sui social di pubblicare fotografie di capezzoli femminili.
Come sfida a questi dogmi di pudicizia, da sempre i/le fotografə ritraggono il corpo umano e la sua espressività da ogni prospettiva e con tecniche sempre più innovative.
In principio predominano i canoni classici
In epoca vittoriana, i nudi artistici ottennero riconoscimento grazie ai riferimenti all’antichità classica: essi avevano come soggetto gli dèi, i guerrieri, le dee e le ninfe.
Le pose, l’illuminazione, la messa a fuoco morbida e ilritocco manuale erano tecniche usate al fine di creare immagini fotografiche comparabili alle altre forme d’arte dell’epoca.
Successivamente, il nudo fotografico divenne un esercizio artistico di esplorazione e conoscenza del corpo umano, in tutte le sue sfaccettature.
Tuttavia il nudo rimane un soggetto controversoperché, a differenza della pittura e della scultura, lafotografia raffigura la nudità verae propria.
Le fotografie di nudo avevano infatti l’obbligo, per poter circolare ed essere esposte ai Salon ufficiali, di possedere l’etichetta “après nature”.
Dall’epoca vittoriana ad oggi, dunque, le società occidentali accettano la rappresentazione della nudità nell’arte ma ritenevano – e ritengono tutt’ora – scandalosa quella vera.
Nella seconda metà dell’Ottocento, tuttavia, alcuni laboratorie atelier di fotografiasi specializzarono nel genere del nudo e diedero vita a collaborazioni con famosi pittori contemporanei, come ad esempio quella tra Eugène Durieu e Eugène Delacroix.
Infine, nel corso del tempo, il nudo fotografico abbandona i riferimenti classici e stabilisce la propria identità nella rappresentazione della realtà, delineando due categorie: l’erotico ed il pornografico.
La distinzione nel nudo fotografico: erotico e pornografico
La distinzione tra le due non è immediata: dobbiamo prima comprendere l’obiettivo dell’artista quando sceglie di ritrarre il proprio soggetto.
Il nudo erotico, infatti, è un abile esercizio di “mostra ma non mostrare troppo”: la parte del corpo fotografata solletica l’immaginazione dell’osservatore e crea desiderio, senza essere troppo esplicita.
L’estetica e la creatività sono il fulcro del nudo; l’elemento erotico, anche se presente spesso, è secondario.
Invece il nudo pornografico usa il corpo nudo – attraverso pose provocanti ed immagini molto esplicite – come oggetto di consumo sia a scopo sessuale sia con scopi parodistici.
Il caso dell’Atelier dei Quattro Pontefici
Nel corso del 1800, infatti, la fotografia diventa inaspettatamente uno strumento usato nei bordelli del Vecchio Continente al punto da diventare, secondo Marshall McLuhan, “bordelli senza muri”.
Oltre a posare come modelle, le prostitute stesse si impadroniscono delle innovative tecniche fotografiche e diventano fotografe-pornografe in proprio.
Esemplare nella storia della fotografia è il cosiddetto caso dell’Atelier dei Quattro Pontefici, aperto nel 1850 a Roma da Martino Sauvedieu – poi italianizzato Martino Diotallevi.
Insieme a lui lavoravano anche la moglie Carolina, ex sarta e modella dell’Accademia, un eunuco di nome Antonio e la rispettiva moglie Costanza, anch’essa abile fotografa.
Questo bizzarro atelier si specializzò inimmagini oscene, addirittura pornografiche, rappresentanti personalità famose dell’epoca tra cui re, regine, papi e uomini politici.
In particolare, secondo le fonti rimaste, Costanza aveva un’incredibile somiglianza con Maria Sofia di Borbone, la regina del Regno di Napoli.
La similarità tra le due tornò molto utile al quartetto nella creazione di immagini satiriche.
Grazie infatti alla tecnica del fotomontaggio – ideata nel 1857 da Oscar Gustav Rejlander – l’atelier produsse fotografie in cui papi, regnanti, personaggi come Garibaldi e Cavour sono immortalati in atti e pose pornografiche.
Secondo alcuni pettegolezzi, moltə stranierə da tutta Europa si sarebbero fermati all’atelier per sbirciare tra le immagini e comprare qualche provocante souvenir.
Il successo derivato dalle vendite di queste fotografie irriverenti è dirompente.
Tuttavia non era ancora l’epoca giusta per la genialità dei Quattro Pontefici: quelle fotografie avevano osato troppo ed infine urtato la sensibilità del buon costume.
Il 22 maggio 1862, le autorità irruppero nell’atelier ed arrestarono i quattro fondatori, mettendo fine alla migliore esperienza di avanguardia pornografica dell’epoca.
L’evoluzione e le derive del nudo fotografico
Il trauma della Prima Guerra Mondiale portò cambiamenti anche per il nudo fotografico: abbandonati i canoni convenzionali, i/le fotografə si dedicarono allo studio “più umano” del corpo nudo.
Tra di loro, si distinsero in particolare fotografə d’avanguardia come Man Ray, André Kertész, Hans Bellmer, Brassaï e Bill Brandt.
Successivamente la tendenza più interessante – inaugurata da Alfred Stieglitz – prevedeva immagini di nudo in ambienti intimi e personali, anziché un’idealizzazione distaccata dal soggetto ritratto.
Grazie allo studio ed al lavoro di Edward Weston, Imogen Cunningham e Ruth Bernhard, il nudo fotografico assume una prospettiva più intima.
Lo scopo diventa cogliere momenti di “nuda umanità” tra pose naturali e quasi indifferenti alla camera.
Sempre di più, gli/le artistə fanno della propria immagine l’oggetto più ricorrente o esclusivo della loro poetica.
Infatti l’esibizione del corpo diventa un leitmotiv della Body Art negli anni Sessanta con Francesca Woodman. Definita come un talento prodigioso, questa fotografa nella sua breve carriera scattò più di 800 fotografie.
Inoltre, numerosə fotografə contemporaneə declinano il nudo fotografico secondo la loro visione, ma anche secondo le necessità di una società consumistica ed ossessionata dalla nudità.
Citiamo dunque Augusto De Luca, Aleksandr Kargal’cev e Irving Penn, i quali con i loro scatti si avventurano oltre i confini creativi della tradizione.
Ed ancora Richard Avedon, Annie Leibovitz e Helmut Newton hanno scelto come soggetti dei propri nudi alcuni personaggi famosi, nudi o vestiti parzialmente.
In particolare, Helmut Newton raggiunge il successo planetario grazie al suo stile caratterizzato da scene erotiche, stilizzate, spesso con allusioni sado-masochiste e feticistiche.
Immancabile nel nostro piccolo excursus sul nudo fotografico è un artista come Robert Mapplethorpe.
Attraverso i suoi scatti erotici, Mapplethorpe ha esplorato una vasta gamma di soggetti sessuali, documentando la sottocultura BDSM di New York negli anni ’70, nudi maschili neri e nudi classici di bodybuilders femminili.
Conclusione
Grazie a questa recente Arte, pionierə come i/le fotografə sopra citatə hanno rotto definitivamente i canoni artistici della classicità.
La realtà è molto più complessa ed interessante della idealizzazione sterile proposta per secoli. Tuttavia, abbiamo ancora qualche problema a rappresentare soggetti non conformi: corpi grassi, corpi con disabilità ed anche corpi di persone di colore.
Rappresentare quindi i corpi veri con tutte le loro imperfezioni e potenzialità diventa un gesto rivoluzionario in una società che richiede solo la perfezione o lo conformità.
Noi di SupportART crediamo nell’importanza di promuovere nuovi punti di vista dietro un obiettivo: vuoi condividere anche tu i tuoi scatti e conoscere artistə/fotografə come te? Non esitare a contattarci!
Alcuni sono passati alla storia, altri sono stati relegati a scoop di nicchia per gli/le appassionate: parliamo di scandali legati al mondo dell’Arte. Vi raccontiamo quindi la burla più riuscitaefamosa nella storia dell’arte: tre giovani studenti riuscirono ad ingannare i migliori critici dell’epoca in quello che è conosciuto come il caso delle tre teste di Modigliani.
Furti, aneddoti leziosi su artiste improbabili, scambi, plagi o falsi spacciati per opere originali – più di quanto potremmo aspettarci ci sono vicende scandalose da svelare.
Da Livorno a Parigi: la storia di Modigliani
Amedeo Modigliani (1884-1920) – affettuosamente soprannominato Modì – fu un pittore e scultore rinomato soprattutto per i ritratti ed i nudi femminili dallo stile moderno unico. Contemporaneo del movimento artistico dei cubisti, non si riconobbe mai in alcuna corrente, preferendo l’originalità del proprio genio creativo.
Cresciuto a Livorno, l’artista ebbe sempre un rapporto travagliato con la città natale: incompreso e deriso dagli amici e dai colleghi intellettuali, si trasferìnel 1906 a Parigi – all’epoca il fulcro dell’avanguardia in Europa.
Modigliani morì prematuramente a Parigi a causa della tubercolosi, ma la sua fama crebbe fino a consacrarlo come uno dei migliori artisti italiani del XX secolo.
La nostra vicenda scandalosa ha inizio proprio qui: con i festeggiamenti indetti dalla città di Livorno per il centenario della nascita del più illustre cittadino.
La leggenda delle tre teste di Modigliani
Nel 1984 infatti, viene allestita una mostra al Museo d’Arte Moderna di Villa Maria, curata dai fratelli Dario e Vera Durbè.
La mostra tuttavia rischiava di essere un fallimento a causa dello scarso numero di opere esposte – Livorno vantava di avere solo 4 delle 26 sculture riconosciute all’artista – e del poco interesse da parte del pubblico.
Consapevoli del potere di un mito alimentato, i due rispolverarono una vecchia diceria: Modigliani avrebbe gettato nel Fosso Reale quattro sue sculture in uno scatto d’ira, dopo l’ennesimo scherno da parte degli amici artisti livornesi.
È l’occasione giusta per scoprire la verità su quella leggenda: il comune di Livorno finanziò quindi una scavatrice che per sette giorni perlustrò, senza risultati, i fossi livornesi nei pressi del presunto lancio.
“Abbiamo deciso di fargli trovare qualcosa”
Tra i tanti spettatori che seguivano le assidue ricerche, tre studenti universitari – Michele Ghelarducci, Pietro Luridiana e Pierfrancesco Ferrucci – decisero di contribuire a modo loro agli sforzi.
I tre riprodussero una testa nello stile dell’artista, muniti di martello e trapano elettrico: il risultato era una riproduzione fedele e convincente.
Tuttavia i ragazzi agirono con la consapevolezza che il loro scherzo non avrebbe retto, dato che i critici avrebbero sicuramente riconosciuto il falso.
In seguito dichiararono: “Visto che non trovavano niente, abbiamo deciso noi di fargli trovare qualcosa!”.
A loro insaputa, tuttavia, lo scultore livornese Angelo Froglia ebbe la loro medesima idea, gettando nel fiume altre due teste. La sua non voleva essere una burla, anzi l’artista dichiarò che la sua era stata “[…] un’operazione estetico-artistica per verificare fino a che punto la gente, i critici, i mass-media creano dei miti”.
Il mondo dell’Arte festeggia il ritrovamento
All’ottavo giorno di ricerca, dunque, avviene il vero miracolo: la ruspa ripescò tre sculture e la somiglianza di stile non lasciò dubbi sull’appartenenza al Modì.
La risposta dei critici d’arte vide da una parte Federico Zeri negare subito l’attribuzione, mentre dall’altra Dario e Vera Durbé e ancora Giulio Carlo Argan e Cesare Brandi attribuirono le teste con certezza a Modigliani.
Proprio il critico Giulio Carlo Argan, sotto i riflettori televisivi annunciò: “Le teste sono certamente autentiche!”.
Non ci crederete, ma per 40 giorni la burla resse tra le esultanze della città di Livorno e dei critici d’arte che vantavano il merito di aver ritrovato le preziose opere di Modigliani.
La notizia portò Livorno alla ribalta della cronaca e turisti e media di tutto il mondoinvasero la città. Dall’America al Giappone, curiosi, giornalisti e critici d’arte corsero alla mostra dei Durbè che subito esposero le teste.
La rivelazione shock della burla dei tre ragazzi
A quel punto, i tre studenti universitari decisero di farsi avanti e confessare di essere loro in realtà gli autori della cosiddetta “Testa numero 2”.
In una intervista esclusiva per il settimanale Panorama presentarono come prova della falsificazione una fotografia che li ritrae nell’atto di scolpire una delle teste, ricevendo, come compenso per lo scoop, dieci milioni di lire.
Paradossalmente, il pubblico dell’Arte accolse la confessione con scetticismo: i ragazzi furono invitati a creare un nuovo falso in diretta, durante uno Speciale TG1.
Lo scopo era dimostrare con i fatti la loro capacità di realizzarlo in “così poco tempo” ma con una somiglianza impressionante agli originali.
Ormai la burla subita era innegabile: il critico d’arte Federico Zeri rivolse un invito in diretta televisiva affinché l’autore delle altre due “teste” uscisse dall’anonimato.
L’artista Angelo Froglia si fece allora avanti e precisò che un pescatore con la barca ed un dipendente comunale lo aiutarono nell’impresa.
La fine del miracolo: chiude la mostra del Modì
La mostra al Museo D’Arte Moderna di Villa Maria chiuse: il miracolo del ritrovamento era giunto al termine, nella delusione ed ilarità generale per la burla riuscita.
Successivamente, il giornalista Gianni Farneti di Panorama affermerà “Io sono di origini livornesi, ho passato la mia infanzia a Livorno e conosco bene la città i suoi umori. Quando venne fuori che avevano cominciato a scavare per cercare le teste la prima cosa che mi venne in mente fu che qualcuno gliele avrebbe fatte trovare”.
Tuttavia, c’è anche chi continuò a sostenere l’autenticità delle tre teste: il critico Argan ne rimase convinto fino alla morte, nonostante le confessioni e le prove presentate.
Conclusione
Questa vicenda ha avuto risvolti imprevedibili, che ci ricordano quasi il copione di un avvincente intrigo cinematografico.
Secondo la nostra opinione, storie come questa sono curiose testimonianze della creatività delle persone quando si trovano nelle condizioni ideali.
L’Arte riesce ad ispirare in modi inaspettati: seguiteci per scoprire nuovi scandali nel mondo dell’arte.
Il British Museum a Londra ha inaugurato la nuova mostra “Feminine power: the divine to the demonic” dedicata accuratamente al potere e all’arte femminile.
Se avete occasione vi consigliamo una visita – avrete tempo fino al 25 settembre – per conoscere le artiste più famose nel panorama internazionale e, in tal modo, osservare il corpo femminile attraverso uno sguardo più inclusivo.
Di seguito vi proponiamo una riflessione doverosa sulla differenza di prospettive e sguardi che hanno determinato delle disuguaglianze di genere nel mondo dell’Arte. Questo non per celebrare meccanicamente l’arte femminile in quanto tale, ma per comprendere le invisibili sovrastrutture che influenzano la popolarità, la visibilità e la rappresentazione anche nel mondo dell’Arte ancora oggi.
La tradizione del male-gaze nell’Arte
Nel 1989 sui bus newyorkesi appaiono per la prima volta i poster provocatori delle Guerrilla Girls, rifiutati dal Public Art Fund per mancanza di chiarezza.
Questi manifesti riportavano per la prima volta i risultati di un’indagine decisiva per il mondo dell’Arte: al Metropolitan Museum of Art solo il 5% degli/delle artistə espostə nella sezione Modern Art era donna, ma più dell’85% dei nudi erano femminili. Nel 2012 i risultati della ricerca riproposta erano praticamente i medesimi.
Da questa rilevazione circoscritta al patrimonio del Met – casa di più di 2 milioni di opere d’arte – nasce, quindi, una consapevolezza maggiore sulle discrepanze dovute al genere tra artistə e sul cosiddetto “male-gaze” nell’Arte.
Il concetto di male-gaze è stato introdotto nel 1975 daLaura Mulvey, regista e critica cinematografica: secondo la sua definizione, si tratta de “il mostrare o guardare eventi o le donne dal punto di vista di un uomo, attraverso l’utilizzo di mezzi di comunicazione quali cinema, televisione, pubblicità, video musicali, arte e letteratura”.
Adottando questa prospettiva, potreste cogliere alle prossime mostre o esibizioni nei musei storici come laforma femminile venga spesso raffigurata come una fantasia voyeuristica impossibile da raggiungere e realizzare nella vita reale.
Nella pratica, il corpo della donna viene costantemente oggettificato e sessualizzato per il piacere maschile: scorrendo un manuale di storia dell’arte, nella maggior parte dei casilo sguardo maschile nega ai suoi soggetti la loro individualità e la loro umanità.
Nel libro rivoluzionario Ways of seeing, John Berger contribuì alla comprensione dell’arte e dell’immagine visiva, criticando l’estetica culturale tradizionale occidentale ed interrogandosi sulle ideologie nascostenelle immagini visive.
Sul male-gaze scrisse: “La donna deve guardarsi di continuo. Ella è quasi costantemente accompagnata dall’immagine che ha di se stessa. […] Gli uomini agiscono e le donne appaiono. Gli uomini guardano le donne. Le donne osservano se stesse essere guardate. Ciò determina non soltanto il grosso dei rapporti tra uomini e donne, ma anche il rapporto delle donne con se stesse”.
L’opposto del male-gaze è infatti il female-gaze: uno sguardo empowering ed empatico che mette in rilievo la dinamicità del soggetto e la sua complessità interiore, senza ridurlo ad un corpo seducente.
Si dice che l’Arte imita la vita e viceversa: quanto, quindi, il nostro immaginario collettivo è stato influenzato dall’adozione secolare di una prospettiva prettamente maschile? Quanto ha influito questo sguardo nella nostra formazione artistica ma anche nelle nostre opinioni sulla sessualità, sugli stereotipi di genere e sull’inclusione?
La risposta dirompente: il female-gaze
Allo scopo di colmare questa mancanza di rappresentazione “veritiera” nell’Arte, molte artiste donne nel corso dell’ultimo secolo – in sinergia con i cambiamenti socio-culturali ottenuti dai movimenti femministi – si sono fatte carico di mostrare al mondo la riappropriazione dell’immagine del corpo e dell’identità femminile.
Nel mondo dell’arte, lo “sguardo femminile” è usato in riferimento alla nuova ondata di arte femminista contemporanea, in particolare la fotografia.
Pioniera in questo campo è stata sicuramente Cindy Sherman (1954) con “Untitled Film Stills”, una serie fotografica ispirata ai B movie degli anni Cinquanta in cui l’artista esplora temi come l’autoritratto, l’uso del travestimento e la parodia degli stereotipi imposti dalla società alle donne.
Georgia O’Keeffe (1887-1986), “madre del Modernismo americano”, invece si discostò sempre dall’interpretazione femminista delle sue opere raffiguranti fiori – spesso reputati dalla critica come simboli di organi genitali femminili.
Tuttavia, senza pretese rivoluzionarie, Georgia O’Keeffe mostrò al pubblico più di semplici raffigurazioni erotiche: “un racconto visivo vivido, poetico ed evocativo di una donna sulla propria esperienza del proprio corpo e dei propri desideri”.
Per contro, artiste post-moderniste come Barbara Kruger (1945), attraverso le tecniche di comunicazione di massa ed advertising, hanno affrontato nelle proprie opere le costruzioni culturali di potere, le questioni d’identità, il consumismo e la sessualità.
La maggior parte dei suoi lavori tratta l’idea della donna nell’arte e come la stessa cultura influisca sulla ricezione dell’immagine femminile nell’arte, a partire dalla sua opera esemplare “Your gaze hits the side of my face”.
Tuttavia, secondo un approccio intersezionale, riteniamo giusto sottolineare che nel campo dell’arte le artiste non-occidentali sono ancora uno spettacolo raro nei musei di belle arti. In particolare le artiste nere vengono raramente ricordate e celebrate al pari di artiste bianche: corriamo quindi il rischio di adottare uno sguardo femminile che esclude però le voci e le prospettive di artiste appartenenti a minoranze.
La prima persona afroamericana a laurearsi alla School of the Museum of Fine Arts, Boston, Lois Mailou Jones (1905-1998) scelse di rappresentare nel suo lavoro la vita quotidiana della comunità afroamericana negli Stati Uniti.
Come artista nera negli Stati Uniti dedicò la sua arte ed il suo attivismo alle battaglie contro il razzismo sistemico, traendo “forza e protezione dal suo patrimonio culturale di fronte al pregiudizio“. Il suo lavoro fu essenziale per l’inclusione dell’esperienza delle minoranze nell’Arte e per una maggiore rappresentazione a partire dagli anni Settanta.
Altresì importante in questo processo di inclusione fu Carrie Mae Weems (1954), artista afroamericana che lavora in testo, tessuto, audio, immagini digitali e video di installazione, ma è meglio conosciuta per la sua fotografia.
Il pubblico la conobbe grazie al suo progetto fotografico dei primi anni ’90 “The Kitchen Table Series”. Le sue fotografie, film e video sono incentrati sulle problematiche che gli afroamericani devono affrontare oggi, come razzismo, sessismo, politica e identità personale.
Conclusioni
Attraverso l’Arte siamo in grado di veicolare emozioni, storie, messaggi in grado di influenzare la percezione delle persone e di creare anche solo un piccolo cambiamento.
Questo scambio ed i possibili effetti dimostrano quanto sia importante riconoscere gli schemi inflessibili da cui l’Arte e gli/le artistə sono stati vincolati per secoli, escludendo lo sguardo e quindi le esperienze delle minoranze. Per questo motivo abbiamo sempre maggiore consapevolezza sull’importanza dello sguardo attraverso cui interpretare, osservare o persino creare un’opera.
Noi di SupportART ci impegniamo affinché ciascunə possa esprimere la propria identità, creatività e storia e non rimanga esclusə dal mondo dell’Arte. Ognuno di noi può essere un artista e contribuire ad arricchire il patrimonio culturale della propria comunità.
Nei primi giorni di giugno assistiamo all’improvvisa esplosione di merchandising arcobaleno, accompagnato da messaggi sull’inclusione e sulla diversity da parte delle aziende multinazionali. In molti casi si tratta di mero rainbow-washing, quindi un’appropriazione della lotta LGBTQ+ senza un contributo concreto alla comunità.
D’altra parte questo mese è diventato, a causa di un momento storico preciso, l’appuntamento annuale di rivendicazione per la visibilità della comunità LGBTQ+. Proprio per questo motivo noi di SupportART abbiamo scelto di usare la nostra piattaforma come cassa di risonanza per la storia e l’arte che hanno segnato il mese del Gay Pride, facendovi conoscere gli effetti dei Moti di Stonewall sull’Arte queer ed alcunə artistə che forse non sapevate essere queer.
I Moti di Stonewall: visibilità e rappresentazione queer
Prima delle parate e della festa tra le strade delle città tra mille bandiere arcobaleno, chi si discostava per orientamento sessuale o per identità di genere al sistema eteronormativo era costretto al segreto o a vivere ai margini della società. La comunità LGBTQ+ ha conquistato la possibilità per tuttə di affermare se stessə, la propria identità e quindi esprimerla anche nell’arte a partire dagli avvenimenti del 28 giugno 1969 al Stonewall Inn di New York, all’epoca uno dei pochi locali sicuri per persone queer. L’ennesimo ingiustificato raid da parte della polizia – e la violenza usata contro donne transgender e sex workers – fa scoppiare la rivolta: guidata da importanti figure come Sylvia Rivera e Marsha P. Johnson, per la prima volta, la comunità LGBTQ+ oppose resistenza agli abusi basati sulla discriminazione e sull’’omofobia.
Per la prima volta, le persone relegate alla vergogna ed ai margini rivendicarono il proprio diritto ad esistere ed essere se stessə; con i Moti di Stonewall la comunità LGBTQ+ affermò l’importanza della visibilità e della resistenza contro un sistema omologante e repressivo.
Da allora ogni anno, per commemorare il coraggio delle persone queer al Stonewall Inn, sono organizzatele parate del Pride in molte nazioni al mondo. È l’occasione per celebrare l’accettazione sociale e l’auto-accettazione delle persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender, asessuali, non-binarie e queer, dei diritti civili conquistati e dell’orgoglio di appartenere alla comunità LGBTQ+.
L’impatto di Stonewall sull’Arte e la sua legacy
Moti di Stonewall – altresì definiti come“la caduta della forcina che si udì in tutto il mondo” – sono stati il fulcro di un cambiamento epocale: ciò che prima doveva essere nascosto, ora poteva essere rivelato, esibito al mondo. E finalmente moltə artistə queer poterono esprimere liberamente attraverso l’arte la loro identità, la loro esperienza e complessità. Non possiamo fare a meno di soffermarci e sottolineare l’importanza – troppo spesso tralasciata o sminuita – della rappresentazione nell’arte: cerchiamo naturalmente dei punti di riferimento e dei modelli in cui identificarci, in cui riconoscere noi stessi e sentirci parte di una comunità.
Fino ad allora le persone LGBTQ+ erano assenti dai media nordamericani e censurati dal cinema di Hollywood ai sensi del Codice Hays (applicato dal 1930 al 1968), e se nominati erano definitə come pervertitə, affettə da malattie mentali e abomini della natura. Dopo i moti di Stonewall, l’atto di rappresentare la storia o la cultura queer era una presa di posizione politica radicale e più artistə hanno iniziato ad affrontare temi LGBTQ+ e ad affinare un’estetica apertamente queer.
Vi proponiamo quindi di seguito alcune opere ispirate a questo decisivo cambiamento storico, per prepararci alla ricorrenza del prossimo 28 giugno e portare più consapevolezza sulla rappresentazione artistica della comunità LGBTQ+.
L’immaginario collettivo su Stonewall infatti ha ispirato i giganteschi dipinti ad olio di Sandow Birk, artista contemporaneo che riprese le tecniche della pittura storica classica per rappresentare i moti in un contesto eroico. Dimostrano che il movimento contemporaneo per i diritti LGBT fa parte di una gloriosa storia di esseri umani che lottano per la libertà, l’uguaglianza e la giustizia.
Per commemorare i 10 anni dal moti di Stonewall, nel 1980 l’artista George Segal dedicò la propria arte alla lotta per i diritti civili della comunità queer attraverso l’opera scultorea “Gay Liberation”, rappresentante due coppie omosessuali lungo Christopher Street.
Tuttavia l’installazione suscitò alcune critiche: la comunità LGBTQ+ si chiedeva se l’opera rendesse adeguatamente omaggio alla storia rivoluzionaria e tumultuosa delle rivolte di Stonewall: “perché il monumento alla Liberazione Gay (1980), una commissione di George Segal per il 10° anniversario delle rivolte, raffigura quattro figure che socializzano tranquillamente a Christopher Park invece di decine di drag queen che lanciano tacchi alti e strappano i parchimetri dal terreno?“.
Nel 2014, invece, l’artista Mary Button dedicò la propria annuale serie di dipinti “Stations Of The Cross” al tema “The Struggle For LGBT Equality”, che porta gli/le spettatorə “in un viaggio attraverso la lotta del XX e XXI secolo per l’uguaglianza LGBT. In ogni decennio degli ultimi due secoli, ci sono esempi profondamente preoccupanti e dolorosi dell’emarginazione dei popoli LGBT“. Il percorso delle sofferenze del Gesù cristiano diventano quindi la chiave di lettura per le sofferenze delle comunità marginalizzate: un simbolo per sensibilizzare anche i punti di vista più conservatori, o forse una provocazione all’ipocrisia dell’omofobia giustificata attraverso la religione cristiana.
Ecco 5+1 artistə che non sapevi fossero queer
Infatti, sebbene l’Arte sia il mezzo per eccellenza per esprimere noi stessi, per dare sfogo alla libertà e alla sperimentazione, purtroppo storicamente essa ha subito un fenomeno di “straight washing”. Molti storici e critici, oltre ai manuali di storia dell’arte comunemente usati nelle scuole italiane, tendono a glissare – o nascondere completamente – sugli orientamenti sessuali o sulle identità di genere di artistə famosə, presentandolə come canonicamente eterosessualə.
I moti di Stonewall sono ricordati come il punto di svolta per la creazione del movimento dei diritti della comunità LGBTQ+ ma, prima della visibilità e di un’orgogliosa rappresentazione, quantə e qualə artistə hanno dovuto celare la propria identità ed il proprio amore?
Ecco a voi quindi alcuni esempi, a partire dal pittore ed incisoreAlbrecht Dürer (1471-1528), stimato come il più importante esponente delRinascimento tedesco, sulla cui bisessualità non rimangono molti dubbi grazie alle numerose lettere rivolte ai suoi amanti.
Pionierə nella lotta per il rispetto e l’accettazione dei diritti civili della comunità queer, Gluck rivendicò sempre attraverso le proprie opere la sua identità gender- nonconforming.
Infatti essə (1895-1978) non si identificava ne come donna ne come uomo: voleva solo essere Gluck e sfidava le intransigenti norme di genere apponendo sul retro dei suoi dipinti la scritta: “No prefix, suffix, or quotes”.
Anche Tamara de Lempicka (1898-1980) non nascose mai nelle sue opere la propria attrazione per i corpi femminili, dichiarando apertamente la propria bisessualità.
Inoltre divenne una delle ritrattiste più affermate ed influenti del Novecento grazie al suo originale stile personale, fortemente influenzato dalla corrente artistica dell’Art Decò ed al contempo da cubismo e neoclassicismo.
Definita contro la sua volontà “un’artista surrealista”, Frida Kahlo (1907-1954) ha segnato la storia dell’arte con la candida – a volte turbolenta, ma assolutamente umana – trasposizione della propria realtà interiore in opere in cui esplora temi come le questioni di identità, postcolonialismo, genere, classe, e razza nella società messicana. Solamente negli anni novanta il pubblico mondiale riconobbe la sua bravura artistica e Frida Kahlo venne finalmente consacrata come un’icona per Chicanos, il movimento femminista e il movimento LGBTQ+.
Francis Bacon (1909-1992), conosciuto anche come “il testimone unicamente desolante della condizione umana”, aveva una relazione apertamente gay col modello George Dyer. Ispirato alla carriera artistica dalle opere di Picasso, in alcune delle sue opere si può vedere l’artista esprimere la sua omosessualità, anche se nel suo tipico modo orribile e crudo.
Infine sembra impensabile non citare Keith Haring (1958-1990): apertamente omessuale, non perse mai occasione per denunciare la lotta per i diritti civili e per sensibilizzare su problemi sociali come la cultura consumistica, l’uso e abuso di droga, e sul razzismo.
Haring, inoltre, perseguiva un modello di “arte per tuttə” allo scopo di condividere le proprie opere con il più grande pubblico possibile: questa missione era possibile soltanto portando l’arte al di fuori dai musei e dalle gallerie, e ignorando le regole imposte dalla società ancora oppressiva e conservatrice.
Conclusioni
In questo mese così significativo – in vista delle celebrazioni e parate che prenderanno vita nelle nostre città italiane – crediamo sia importante mantenere vivo il ricordo dei Moti di Stonewall, del cambiamento immenso che hanno comportato e della cultura ed arte che hanno permesso fiorissero.
Abbiamo inoltre scelto di dedicare uno spazio per gli/le artistə che hanno opposto resistenza all’oppressione attraverso l’arte, lottando affinché la loro identità non venisse travisata o nascosta: ricordando il legame tra questə artistə e la loro identità di genere o il loro orientamento sessuale possiamo comprendere al meglio la loro arte, ma soprattutto per rispettare il loro nome e la loro eredità.
Noi di SupportART vogliamo contribuire alla lotta per maggiore rappresentazione e visibilità per gli/le artistə appartenentə alla comunità LGBTQ+ perché crediamo fortemente nella capacità dell’arte di veicolare messaggi, prospettive ed esperienze uniche che ci permettono di creare legami e, forse, imparare ad apprezzare la diversità.
Negli ultimi mesi del 2021 abbiamo assistito alla diffusione degli NFT con conseguente corsa alla creazione, via algoritmo, di intere collezioni di non-fungible tokens quotate e vendute per milioni di dollari a livello mondiale. Per avere una buona panoramica su queste nuove opere d’arte, facciamo un breve riassunto delle tappe “storiche” degli NFT.
Se osserviamo il boom e la conseguente evoluzione del mercato degli NFT, non ci troviamo di fronte ad un trend virale effimero: si tratta di una rivoluzione radicale del mondo dell’arte, che gioca secondo i propri schemi e le proprie gerarchie. Complice anche l’isolamento causato dalla pandemia, abbiamo adattato gran parte della nostra vita quotidiana al mondo digitale.
A guidare le persone il bisogno irrinunciabile di una community e la prospettiva di una ricchezza “facile”: non possiamo certo biasimare gli/le artistə che negli ultimi due anni sono stati privati della possibilità essenziale di esibire la propria arte al grande pubblico e trarne profitti. Tuttavia ogni stato di crisi (dal greco antico, letteralmente “punto di svolta”) comporta degli interrogativi sugli effetti preannunciati, soprattutto se riguardanti il mondo dell’Arte, così intrinsecamente ancora legato all’idea della manodopera e dell’unicità di ogni opera. Ci chiediamo quindi come possa essere tutelata l’unicità di ogni NFT e garantiti i diritti d’autore, già bersaglio facile dei lucratori – vedete il caso di Banksy, di cui innumerevoli volte è stato violato il copyright delle sue opere per semplice vendita di merchandising. Per avere però una buona panoramica su queste nuove opere d’arte, facciamo un breve riassunto delle tappe “storiche” degli NFT.
Le Origini degli NFT
Gli NFT infatti proliferavano già da anni nel web, più precisamente dal 2017, con le prime “rudimentali” opere- considerate semplicemente dei meme all’epoca – come la serie di icone “Crypto Punks” ed l’icona loop “Nyan Cat” ( la prima Gen-Z ricorderà ancora il video su YouTube). La svolta è stata segnata dalla vendita di Everydays: The First 5,000 Days, opera digitale di Beeple, per 69 milioni di dollari all’asta. Oltre a rendere Beeple il terzo artista più costoso al mondo, questa vendita era la prima volta che una prestigiosa casa d’aste offriva un NFT e ciò ha dato prestigio e convalida al nuovo mercato NFT – prima apparentemente condannato alla nicchia digitale.
Ad approfittare dell’emergente notorietà degli NFT ci ha pensato il gruppoBAYC con la serie in 10.000 parti “Bored Ape Yacht Club” – lanciata a maggio – presenta una serie di scimmie con diverse caratteristiche frutto della combinazione casuale dell’ algoritmo impostato. Ad un anno dal successo è innegabile il dominio di Bored Ape Yacht Club sul mercato NFT: basti pensare che il prezzo medio per una singola scimmia si aggira attorno ai 183.820,24€.
Tuttavia l’elemento chiave che ha permesso l’ascesa di questa icona è la garanzia di uno status speciale al compratore/compratrice che consente di accedere ad una community di persone “affini”. Immaginiamolo come il Golden Ticket – trovato non per semplice fortuna ma acquistato volontariamente con un obiettivo specifico – che vi permetterebbe di accedere alla cerchia più esclusiva al mondo. Tra gli attuali 6262 proprietari di BAYC infatti possiamo contare Snoop Dogg, Eminem, Paris Hilton e Madonna: la possibilità di entrare in contatto con una tra le persone più influenti al mondo in un prossimo Metaverso alletterebbe chiunque, specialmente gli/le artistə che cercano una community in grado di tutelarlə in questo nuovo mercato.
A questo fine sono state prontamente create delle piattaforme come il registro dei domini .ART, la quale ha permesso ai creatori di ancorare le loro collezioni, formare comunità e raggiungere un nuovo pubblico.
Il “Rinascimento digitale”
L’ascesa del mercato NFT ha sottolineato l’importanza della digital security e della legge sul copyright in un mondo digitale in cui è necessario garantire un sistema che prevenga il rischio di furti d’arte e tuteli gli/le artistə indipendentemente dal loro successo. Piattaforme come .ART forniscono quindi uno spazio sicuro in cui caricare e vendere i propri NFT senza la preoccupazione che possano essere “rubati” e copiati, nonostante l’elemento imprescindibile di un NFT sia proprio la sua unicità. Inoltre .ART si pone come mediatore in grado di collegare il mondo digitale con le gallerie tradizionali, i musei e le case d’aste.
Questa trasformazione del mercato dell’arte è stata determinata dalla pandemia, che ha portato le vendite di arte online a salire dal 9% al 25% delle vendite d’arte globali totali nel 2021, secondo Art Basel. Tramite le piattaforme create ad hoc, gli/le artistə ora possono formare connessioni più profonde con i collezionisti e gli NFT hanno contribuito a istigare un passaggio dal consumo alla condivisione, secondo il fondatore di ART Ulvi Kasimov.
Da qui l’affermazione per cui – in base alla ricerca Mapping the NFT revolution condotta dal team di Mauro Martino – la tecnologia blockchain, e gli NFT in particolare, hanno innescato un “rinascimento dell’arte digitale”. Per quanto potremmo dubitare di tale affermazione – forti nel nostro nostalgico attaccamento per l’arte visiva tradizionale e lo splendore del Rinascimento italiano – viviamo in tempi frenetici in cui sembra impossibile rimanere costantemente al passo e prevedere l’evoluzione di fenomeno finora considerati intoccabili ed insuperabili: la strategia per il miglior adattamento è la rete o la comunità in grado di tutelarci, di rispondere ai nuovi bisogni ed alla possibilità di realizzarci.
Ricordiamoci infatti che l’Arte non è un simulacro distaccato dalla nostra vita, ma nasce e si trasforma insieme all’essere umano: siamo noi a definire cosa è arte ed a conferire canoni e chiavi di lettura. Di pari passo con la nostra evoluzione progressiva verso la realtà virtuale abbiamo intrapreso anche una virtualizzazione delle arti, trasponendo l’istinto creativo e la condivisione della bellezza online.
Conclusioni
In una recente intervista per Creative Bloq, l’artista VFX Bilali Mack condivide il suo ottimismo verso la rivoluzione dell’arte, in quanto gli NFT e la tecnologia blockchain potrebbero finalmente garantire un empowerment per gli/le artistə, in particolare per coloro appartenenti a minoranze etniche e/o sociali finora indubbiamente discriminate nel mondo dell’arte: “Gli NFT sono un ottimo modo per livellare il campo di gioco per le persone di colore, per le donne, per qualsiasi comunità che si possa immaginare che sia stata priva di diritti civili o sia stata lasciata fuori in qualche modo“, afferma Mack. Quindi gli NFT rappresentano la possibilità per nuove voci di emergere e di realizzare innovativi progetti che altrimenti verrebbero ignorati dai media mainstream e dai bias dell’algoritmo sui social media: ciò è possibile perché tuttə gli/le artistə possono avere accesso a raccolte fondi ed avere il controllo completo del loro messaggio e della loro arte.
Riassumendo le opinioni condivise dagli/dalle artistə, tre sono i fattori che hanno inciso maggiormente sul passaggio all’arte virtuale e scatenato la quasi precipitosa corsa a fine del 2021 per unirsi alle piattaforme come OpenSea e .ART: indipendenza, accessibilità e comunità. Inoltre le possibilità di guadagno sono nettamente superiori senza l’intercessione di studi o gallerie d’arte e gli/le artistə nel mondo digitale stanno finalmente ottenendo il controllo del loro successo.
Nonostante le difficoltà rappresentate dal nuovo mercato degli NFT e l’incertezza che accompagna i primi passi verso la costruzione ed affermazione di un delicato “ecosistema” virtuale, è innegabile che il cambiamento stia avvenendo e sia un’opportunità per stabilire nuove regole che garantiscano equità e tutela per gli/le artistə.
Anche noi si SupportART vogliamo fare parte di questa innovativa frontiera dell’Arte, poiché crediamo nell’importanza di creare una community sicura e stimolante per qualunque artista. Anziché rimanere sospesə nel timore di correre il rischio, vogliamo mettere a vostra disposizione una sezione del nostro sito e della nostra comunità per vendere e comprare NFT in modo sicuro. Se siete anche voi dei/delle creatorə che cercano una piattaforma per le proprie opere digitali o conoscete qualcuno a cui potrebbe essere utile, non esitate a contattarci: la rivoluzione dell’arte è un’occasione per creare comunità e realizzare al meglio il potenziale della realtà virtuale.
Siamo affamatə di arte, di nuove prospettive, di riscoperta attraverso paradigmi che rompano con la tradizione, di risposte alle nostre inquietudini: la Biennale d’Arte può offrirci gli spunti per la ripartenza, guidandoci in un percorso onirico e pionieristico sulla nostra umanità. Il nostro team di SupportART si è immerso pochi giorni fa in questo viaggio introspettivo ed al contempo collettivo per rendere ora partecipi anche voi, seppure consigliamo a tuttə di partecipare in prima persona a questa esposizione.
Posticipata di un anno a causa della pandemia Covid-19, da poche settimane è stata inaugurata la 59. Esposizione Internazionale d’Arte – si svolgerà dal 23 aprile al 27 novembre 2022– organizzata dalla Biennale di Venezia e curata da Cecilia Alemani, (nota doverosa: per la prima volta negli oltre 127 anni di storia dell’istituzione veneziana, è una donna a ricoprire il ruolo di curatore e direttore artistico).
La Mostra “Il latte dei sogni” prende il titolo da un libro di favole di Leonora Carrington in cui l’artista surrealista descrive “un mondo magico nel quale la vita viene costantemente reinventata attraverso il prisma dell’immaginazione e nel quale è concesso cambiare, trasformarsi, diventare altri da sé”. Ed è proprio questo titolo, sotto forma di monolite bianco, ad accoglierci all’ingresso della mostra all’Arsenale: una tela candida, quasi un invito ad abbandonare i canoni tradizionali e le considerazioni scolpite nelle nostre menti sull’arte e ad accogliere un successivo caleidoscopio di colori, forme, corpi, quasi-corpi, passati e futuri possibili per l’essere umano.
Gli artisti hanno infatti sviscerato e rielaborato secondo la loro prospettiva i temi centrali proposti, quali: la rappresentazione dei corpi e le loro metamorfosi, la relazione tra gli individui e le tecnologie, i legami che si intrecciano tra i corpi e la Terra. Nonostante siano temi da sempre indagati per mezzo delle arti, l’innovazione palpabile della 59. Esposizione Internazionale è amplificare i punti di vista e le storie fino ad ora escluse in un panorama governato da una visione patriarcale e occidentalizzante.
Vengono esposte infatti 1433 opere firmate da 213 artistə provenienti da 58 nazioni e, per la prima volta, una mostra del calibro della Biennale d’Arte di Venezia sceglie consapevolmente di promuovere artistə donne, trans, non-binary, POCs ed artistə indigeni. Secondo la critica, divisa in due fazioni in queste prime settimane dall’apertura tra chi apprezza la sfida de Il latte dei sogni e chi invece è rimasto disorientato dalla prospettiva intersezionale, si può comunque parlare di una riscrittura della storia dell’arte. Forse in questi anni di pandemia abbiamo sviluppato un nuovo appetito – stanchi e stanche ormai di una arte bigotta e cristallizzata: abbiamo assunto maggiore consapevolezza sulle disparità sociali e sul ruolo della cultura per abbattere le discriminazioni perpetrate ed ora vogliamo vedere rappresentato questo nuovo mondo che si discosta dai canoni classici e dai costrutti sociali occidentali.
Sembrano assurde dunque le accuse rivolte da alcuni critici di aver “strizzato troppo l’occhio al politically correct”: da sempre vi è uno scambio simbiotico tra l’arte ed il sociale – in alcuni casi è impossibile scinderli tra loro – ed in questo momento storico così inquieto gli/le artistə hanno percepito una nuova era di consapevolezza, di ricerca e di rivalutazione della visione moderna e occidentale dell’essere umano – in particolare la presunta idea universale di un soggetto bianco e maschio, “uomo della ragione” – come il centro dell’universo e come misura di tutte le cose. È questa decostruzione dell’ideale a rapire lo sguardo: a noi spettatorə la scelta di farci trasportare in questo viaggio intimo sull’essenza e sull’esperienza dell’essere umano secondo il ritmo anarchico dei sogni. Il nostro percorso si è aperto infatti con i quadri in bianco e nero dell’artista cubana Belkis Ayòn che diventano preludio del racconto sui corpi, sui miti e sulla spiritualità delle culture postcoloniali finora rimaste sconosciute o “di nicchia” nel panorama artistico italiano. Proprio l’inclusione di questi punti di vista variegati apre lo sguardo alle storie di esclusione e di discriminazione basate sull’identità personale e nazionale grazie alle opere di Simone Leigh, Gabriel Chaile, Rosana Paulin, Safia Farhat e Tau Lewis (per citare alcunǝ artistǝ che ci hanno particolarmente colpito). Con ciò l’indagine sulla definizione di umano e sul suo cambiamento si snoda attraverso opere dall’impatto arcaico e psichedelico in grado di coinvolgere i sensi, facendo leva sulla nostra curiosità verso il bizzarro.
Dalla comunione dell’essere umano con la natura – spinta fino alla fusione – si passa alla possibilità di un’umanità cyborg, biologicamente integrata con la tecnologia artificiale che permette funzioni ed abilità potenziate in una società che ordina prestazioni sempre più meccanizzate. Se credete di avere visto abbastanza con alcune puntate di Black Mirror, le artiste Marianne Brandt, Tishan Hsu e Louise Nevelson si sono spinte ben oltre nel rappresentare questi possibili ibridi tra essere umano e macchina.
Sebbene tutte le opere siano intrise di una componente di denuncia sociale, assumono un ruolo monumentale le installazioni di Barbara Kruger – spietata nella critica contro il giuramento alla bandiera americana e contro l’influenza mediatica – e di Lynn Hershman Leeson, impegnata invece con temi di sorveglianza, privacy ed intelligenza artificiale. Attraverso un Neo Surrealismo vivificante ed intriso di attivismo, nelle sale dell’Arsenale dominano pittura, fotografia, linguaggio grafico e arazzi, mentre la scultura e le installazioni audiovisive occupano uno spazio proprio che ne accentua la rilevanza quasi sacrale e di grande impatto visivo: potreste rimanere anche voi affascinatə e colpitə nel contemplare i video degli/delle artistə Luyang, Diego Marcon e Marianna Simnett. Senza svelarvi ulteriori dettagli e rischiare eccessivi spoiler, il nostro viaggio all’interno dell’Arsenale si conclude con toni quasi mistici attraverso – letteralmente – l’installazione dell’artista Precious Okoyomon.
Una selva oscura che ci riporta agli albori dell’umanità, al timore reverenziale di trovarsi immersi nella natura e di confrontarsi con parti più intime della nostra essenza umana. Lasciandoci alle spalle questa foresta quasi primordiale, suonano ancora più vere le riflessioni della curatrice Cecilia Alemani: “La pressione della tecnologia, l’acutizzarsi di tensioni sociali, lo scoppio della pandemia e la minaccia di incipienti disastri ambientali ci ricordano ogni giorno che, in quanto corpi mortali, non siamo né invincibili né autosufficienti, piuttosto siamo parte di un sistema di dipendenze simbiotiche che ci legano gli uni con gli altri, ad altre specie e all’intero pianeta”.
Forse ora vi starete chiedendo il perché SupportART abbia condiviso questa review su Il latte dei sogni basata semplicemente sull’esperienza personale del nostro team. Crediamo che questo sia il modo migliore per valorizzare l’arte, a partire dal racconto con umiltà e con entusiasmo delle emozioni e delle riflessioni che le opere esposte ci hanno suscitato. Sosteniamo inoltre che l’arte non sia un mondo a sé stante, distaccato dalla vita di tutti i giorni e dalle nostre routine frenetiche: l’arte è condivisione, è un tassello fondamentale della nostra umanità che ci permette di conoscere altre persone, altre culture, altre prospettive e di stringere un legame con il mondo e con noi stessə.
Noi di SupportART vogliamo prenderci cura di questa potente condivisione e degli/delle artistə che volessero prendere parte alla nostra community. La nostra missione infatti non è trarre profitti sterili dalle arti, ma costruire e coltivare una rete di supporto e di condivisione tra artistə – riferendoci al ruolo “professionale” – e chiunque ami l’arte e voglia contribuire con le proprie abilità e possibilità a supportarla. Proprio a partire dai/dalle grandə artistə del passato – quei giganti che ci hanno lasciato opere di cui ancora parliamo, ci innamoriamo, usiamo come riferimento per le battaglie personali e collettive – vogliamo dare la possibilità agli/alle artistə contemporaneə di creare sotto forma di tutte le arti.
Non ci fermiamo infatti solo alle arti visive: continuate a seguirci, presto vi faremo conoscere tutte le nostre iniziative! E nel frattempo, se avete la possibilità, vi consigliamo di perdervi per qualche ora nel mondo profondamente umano dei sogni nelle sale dell’Arsenale.